LIBRI a cura di MASSIMILIANO LEONI
 
Era il 1943 quando L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters comparve per la prima volta in Italia, pubblicata da Einaudi nella traduzione di Fernanda Pivano. In realtà nel 1941 ne era già apparsa una selezione che Cesare Pavese aveva fatto intitolare Antologia di S.River. Il titolo così modificato rese possibile ottenere il permesso di pubblicazione da parte del Ministero della cultura popolare, credendo che si trattasse di una raccolta di massime di un santo. In effetti il contesto italiano di quel periodo storico era ostile sia ad una apertura alla letteratura americana, sia alle idee espresse da Lee Masters. Il libro fu concepito dall’autore dopo la lettura dell’Antologia Palatina, raccolta di epigrammi ed epitaffi greci tanto relativi di intimità e di passioni. Lee Masters scrisse che l’antologia greca gli aveva suggerito qualcosa che era “meno del verso ma più della prosa” e volle superare una “ripetizione degli epigrammi greci, ironici e teneri, satirici e partecipi, come esperimenti di temi conosciuti per giungere ad una “rappresentazione epica della vita moderna”. Immaginò una collina dove giacevano affiancati i morti di un paese immaginario e, via via, portò avanti la realizzazione d’una raccolta di duecentoquarantaquattro poesie. Emerge un quadro che raffigura un intreccio di storie che coinvolge ciascun abitante in un complesso di azioni individuali e collettive. Dalla collina ogni uomo rivede ora la propria esistenza ed esprime i propri pensieri negli epitaffi che costituiscono l’Antologia. A parlare sono quindi i morti chiusi nelle bare, che parlando raccontano la loro vita così come la vedono ora, liberi da essa e non più chiusi nella loro esistenza terrena.
Ognuno di questi morti porta con sé una situazione, un ricordo, un paesaggio, una parola o un semplice gesto apparso prima così pesante, ma così sciocco e insignificante dopo, visto con gli occhi e la saggezza dell’aldilà. Con brevi epitaffi narra, ammonisce, consiglia, maledice l’uomo e il suo modo di agire, il suo mondo legato al tempo e ai gesti, così diverso rispetto a quel mondo in cui ora abita. È il mondo della libertà finalmente raggiunta come meta finale di quel cammino triste e penoso, riempito di vuote frasi e di vuote azioni, ora urlate nella loro vera natura. I racconti illuminano la vera Spoon River: quella del farmacista che, non conoscendo le regole dell’amore, non lo volle mai incontrare, quella del nano che sceglie di diventare giudice per operare vendetta contro coloro che sempre l’hanno deriso per la statura, quella della donna che porta con sé un segreto inconfessabile, gli uomini e le donne perdutamente innamorati senza aver mai svelato niente e amori profondi ma in verità inconsistenti.
Sono poesie, poesie di vita, poesie di morte, simbolo di ricerca di una libertà della quale siamo stati privati in questo mondo. Sono semplici poesie, come prosa in versi, pensieri urlati, ripetuti, ossessivi, originali, melanconici, saggi. Questi pensieri vengono dai corpi che “si tramutano in erba che non nutre greggi, e in sempreverde che non portano frutto”, oppure che giacciono sotto il melo e si aggirano “nel moto chimico della vita, nel suolo e nella carne dell’albero, e negli epitaffi viventi di mele più rosse”
 
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